Banca dati sul cambiamento climatico
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- burjan
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Banca dati sul cambiamento climatico
Carissimi,
il topic che apro stasera è un pò diverso dagli altri.
Non avrà la funzione di costituire una stanza di discussione, ma vuole essere una banca dati, liberamente consultabile da tutti, contenente il maggior numero possibile di articoli sulle tematiche del Global Change.
Ciascuno di noi potrà arricchirla, giorno dopo giorno, con quanto riuscirà a reperire. Sarà a disposizione delle nostre discussioni e ci consentirà di supportarle meglio.
Ogni messaggio dovrà contenere il riferimento ad un articolo, riportando necessariamente un abstract di almeno tre righe, non necessariamente curato da chi lo posta. Sarebbe molto opportuno, ovviamente, anche riportare per esteso o tramite link il testo dell'articolo; in alternativa, andrà bene anche l'abstract, così come potremmo reperirlo su una rivista o quotidiano on line.
L'articolo dovrà riportare gli esiti di una ricerca scientifica sull'argomento del Global Change, o su uno dei suoi aspetti.
Non saranno ammessi articoli a carattere strettamente politico, anche se inerenti l'argomento.
L'utente che posta il messaggio si fa garante del rispetto delle regole sul copyright, senza assunzione di responsabilità dello staff in merito. Operativamente, suggeriamo, qualora ci siano dubbi di questo genere, di postare unicamente il link all'articolo.
In questo topic non saranno ammessi commenti personali, salvo eventualmente quanto riportato nell'abstract se curato direttamente dall'utente che posta (ma sarebbe bene che l'abstract si limitasse a riassumere l'articolo). In particolare, non saranno ammessi messaggi di commento da parte di altri utenti.
Ovviamente, l'utente che posta l'articolo potrà benissimo aprirci sopra anche un topic specifico in merito, nel quale la discussione potrà svilupparsi liberamente, entro le regole del forum.
Analoga banca dati sarà aperta anche nella pagina "Clima e storia degli eventi meteorologici"; qui gli articoli dovranno avere come oggetto non le previsioni sul clima che verrà, ma le ricerche paleoclimatiche e storiche.
Gli articoli potranno essere preferibilmente in lingua italiana, ma saranno ammessi anche inglese, francese o spagnolo.
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Il dono della previsione è far comprendere quanto sia perfettamente inutile dare una risposta alle domande sbagliate (Ursula Le Guin)
- burjan
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Re: Banca dati sul cambiamento climatico
Inizio io con un articolo un pò negazionista, al di sopra di ogni sospetto.
Cambiamenti climatici, gas serra, ruolo dell'uomo nel procurare modificazioni dell'atmosfera. Intervista al massimo esperto italiano di Fisica delle nubi. Che sui giovani di Friday for Future dice: "Impegno apprezzabile, ma obiettivi sbagliati"
https://www.agi.it/scienza/cambiamenti_ ... 019-10-14/
Cambiamenti climatici, gas serra, ruolo dell'uomo nel procurare modificazioni dell'atmosfera. Intervista al massimo esperto italiano di Fisica delle nubi. Che sui giovani di Friday for Future dice: "Impegno apprezzabile, ma obiettivi sbagliati"
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- burjan
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Re: Banca dati sul cambiamento climatico
From Qatar to Vietnam, global heating is making the workplace deadly for millions.
Regular exposure to dangerously high temperatures poses a grave and growing threat to workers around the world
Da "The Guardian":
https://www.theguardian.com/global-deve ... r-millions
Regular exposure to dangerously high temperatures poses a grave and growing threat to workers around the world
Da "The Guardian":
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Il dono della previsione è far comprendere quanto sia perfettamente inutile dare una risposta alle domande sbagliate (Ursula Le Guin)
- Adriatic92
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Re: Banca Dati Sul Cambiamento Climatico
https://scienze.fanpage.it/ancora-un-me ... la-storia/
L’Amministrazione nazionale oceanica ed atmosferica (NOAA) americana ha annunciato che il mese di settembre appena trascorso è stato il più caldo da quando viene tenuta traccia delle temperature globali (1880). La temperatura è stata di 0,95 gradi centigradi superiore rispetto alla media del XX secolo, un record negativo identico a quello raggiunto nel 2015.
Il mese di settembre del 2019 è stato il più caldo della storia, facendo segnare lo stesso record negativo del 2015. La temperatura rilevata da stazioni meteorologiche e sensori sparsi per il globo è risultata essere di 0,95 gradi centigradi superiore alla media del XX secolo. Ad annunciare l'ennesimo, drammatico dato sui mesi “infuocati” è stata la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA – Amministrazione nazionale oceanica ed atmosferica), agenzia federale statunitense che si occupa di monitorare fenomeni climatici e meteorologici, oltre che di oceanografia.
Come indicato, la temperatura media registrata è stata la stessa del settembre del 2015, quello che fino ad oggi occupava in solitaria il primo posto della famigerata classifica. Negli ultimi 140 anni, cioè da quando viene tenuta traccia delle temperature globali, non c'è stato dunque un settembre più caldo di quello che abbiamo appena vissuto. Si tratta di un altro inequivocabile segnale del riscaldamento globale in atto catalizzato dai cambiamenti climatici, la cui causa principale sono le attività umane che immettono in atmosfera enormi quantità di gas a effetto serra (dei quali il principale è l'anidride carbonica).
A rendere ancor più drammatico il dato riportato nell'ultimo rapporto del NOAA, il fatto che settembre 2019 è stato il 43esimo settembre consecutivo (e il 417esimo mese consecutivo) con temperature superiori alla media del XX secolo. Se ciò non bastasse, gli scienziati dell'agenzia federale americana hanno rilevato che abbiamo vissuto il secondo periodo gennaio-settembre più caldo dal 1880; il record spetta al 2016, che supera il 2019 per appena 0,01 gradi centigradi in più.
Tra gli altri preoccupanti dati emersi dal rapporto dell'agenzia statunitense vi sono l'estensione del ghiaccio marino artico, risultata essere la terza più bassa (del 32,6 percento) rispetto alla media registrata tra il 1981 e il 2010, e quella del ghiaccio marino antartico, dell'1,3 percento inferiore rispetto a quella media dello stesso periodo. Sono tutti segnali di allarme che il pianeta continua a lanciarci; ci stiamo pericolosamente avvicinando a un punto di non ritorno e se davvero continueremo su questa strada il rischio di veder scomparire la civiltà umana nel 2050, come ipotizzato da alcuni scienziati, diventerà sempre più concreto."
L’Amministrazione nazionale oceanica ed atmosferica (NOAA) americana ha annunciato che il mese di settembre appena trascorso è stato il più caldo da quando viene tenuta traccia delle temperature globali (1880). La temperatura è stata di 0,95 gradi centigradi superiore rispetto alla media del XX secolo, un record negativo identico a quello raggiunto nel 2015.
Il mese di settembre del 2019 è stato il più caldo della storia, facendo segnare lo stesso record negativo del 2015. La temperatura rilevata da stazioni meteorologiche e sensori sparsi per il globo è risultata essere di 0,95 gradi centigradi superiore alla media del XX secolo. Ad annunciare l'ennesimo, drammatico dato sui mesi “infuocati” è stata la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA – Amministrazione nazionale oceanica ed atmosferica), agenzia federale statunitense che si occupa di monitorare fenomeni climatici e meteorologici, oltre che di oceanografia.
Come indicato, la temperatura media registrata è stata la stessa del settembre del 2015, quello che fino ad oggi occupava in solitaria il primo posto della famigerata classifica. Negli ultimi 140 anni, cioè da quando viene tenuta traccia delle temperature globali, non c'è stato dunque un settembre più caldo di quello che abbiamo appena vissuto. Si tratta di un altro inequivocabile segnale del riscaldamento globale in atto catalizzato dai cambiamenti climatici, la cui causa principale sono le attività umane che immettono in atmosfera enormi quantità di gas a effetto serra (dei quali il principale è l'anidride carbonica).
A rendere ancor più drammatico il dato riportato nell'ultimo rapporto del NOAA, il fatto che settembre 2019 è stato il 43esimo settembre consecutivo (e il 417esimo mese consecutivo) con temperature superiori alla media del XX secolo. Se ciò non bastasse, gli scienziati dell'agenzia federale americana hanno rilevato che abbiamo vissuto il secondo periodo gennaio-settembre più caldo dal 1880; il record spetta al 2016, che supera il 2019 per appena 0,01 gradi centigradi in più.
Tra gli altri preoccupanti dati emersi dal rapporto dell'agenzia statunitense vi sono l'estensione del ghiaccio marino artico, risultata essere la terza più bassa (del 32,6 percento) rispetto alla media registrata tra il 1981 e il 2010, e quella del ghiaccio marino antartico, dell'1,3 percento inferiore rispetto a quella media dello stesso periodo. Sono tutti segnali di allarme che il pianeta continua a lanciarci; ci stiamo pericolosamente avvicinando a un punto di non ritorno e se davvero continueremo su questa strada il rischio di veder scomparire la civiltà umana nel 2050, come ipotizzato da alcuni scienziati, diventerà sempre più concreto."
Ultima modifica di Adriatic92 il sab 19 ott, 2019 11:12, modificato 1 volta in totale.
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Altezza max: 267mt
Escursione Altimetrica: 220mt
Zona Altimetrica: collina litoranea
Coordinate:
Latitudine 43°31'35"40 N
Longitudine 13°23'34"80 E
http://www.lineameteo.it/stazioni.php?id=1822
http://meteopolverigi.altervista.org/
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Re: Banca Dati Sul Cambiamento Climatico
http://www.climatemonitor.it/?p=51687
Luigi Mariani, agrometeorologo e meteoclimatologo che insegna all’Università di Milano, in un’intervista ai microfoni di MeteoWeb ha parlato di clima e riscaldamento globale in un momento in cui l’allarmismo sul tema ha raggiunto livelli molto alti. Il Prof. Mariani ha fornito un quadro molto chiaro, partendo dalle conoscenze attuali della climatologia fino al riscaldamento in atto e ai suoi effetti sulla Terra, che non sono solo negativi.
Luigi Mariani, agrometeorologo e meteoclimatologo che insegna all’Università di Milano, in un’intervista ai microfoni di MeteoWeb ha parlato di clima e riscaldamento globale in un momento in cui l’allarmismo sul tema ha raggiunto livelli molto alti. Il Prof. Mariani ha fornito un quadro molto chiaro, partendo dalle conoscenze attuali della climatologia fino al riscaldamento in atto e ai suoi effetti sulla Terra, che non sono solo negativi.
- burjan
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Re: Banca dati sul cambiamento climatico
Gli studi dicono che per evitare il disastro ambientale le emissioni globali debbano essere più che dimezzate. I capitalisti negano l’evidenza. O giocano agli apprendisti stregoni proponendo soluzioni tecnologiche improbabili
Inserisco questo articolo perché, oltre a valutazioni di carattere indubbiamente politico, contiene anche molti dati che danno un'idea complessiva della situazione. Ometto per correttezza le proposte politiche finali, che d'altra parte si intuiscono dalla premessa.
Daniel Tanuro, da "Jacobin italia".
L’attualità ci parla non di una mera «questione», ma di una «urgenza» ecologica. Il programma internazionale Geosfera-biosfera ha identificato dieci parametri ambientali dello sviluppo umano e dieci soglie di sostenibilità. In quattro di questi dieci ambiti i limiti sono già stati superati (il ciclo dell’azoto, la riduzione della biodiversità, la concentrazione di gas a effetto serra nell’atmosfera e l’erosione del suolo). In altre parole, la catastrofe è già in corso.
La popolazione totale, la popolazione urbana, il Pil, il trasporto di merci, il consumo di energia primaria, di acqua e di fertilizzanti, la produzione di carta, le grandi dighe, il turismo… Le curve di incremento di questi fattori dal 1750 a oggi sono cosa nota. Tutte hanno un profilo esponenziale, con un punto di inflessione intorno al 1950: è lì che i ricercatori situano la cosiddetta «grande accelerazione» del dopoguerra.
Spesso guardando la curva della popolazione si arriva alla conclusione che la causa di tutti problemi sarebbe la demografia. Uno sguardo più attento, però, rivela tutt’altro. È vero che la popolazione mondiale è aumentata di 2,7 volte tra il 1950 e il 2000, ma è altrettanto vero che il consumo di energia primaria è cresciuto di 5 volte e mezzo, il trasporto di merci si è moltiplicato per 7, il consumo di fertilizzanti per 16 e il Pil per 10. Allo stesso tempo, le disuguaglianze sociali sono aumentate del 12%. Il motore dell’accelerazione, dunque, non risiede nella popolazione ma nel modo in cui l’umanità produce la sua stessa esistenza sociale. Il vero motore del processo è l’accumulazione del capitale, fonte della tendenza alla crescita infinita, da un lato, e all’esacerbazione delle disuguaglianze dall’altro. Ora, l’accumulazione è inscritta nel Dna del capitale. Sotto la frusta della concorrenza, i capitalisti lottano per il massimo profitto e poi lo reinvestono al fine di ottenerne sempre di più. È questo il meccanismo che sta dietro alla «grande accelerazione».
Ora, la domanda è, come mai questo processo continua imperterrito, nonostante le minacce di crisi? La risposta è che il capitale non è una cosa inerte: è una quantità di denaro che cerca freneticamente di crescere sfruttando il lavoro. Ma poiché ogni lavoro richiede energia e risorse ricavate dall’ambiente, l’accumulazione implica necessariamente lo sfruttamento di una quantità sempre maggiore di risorse, umane e non umane.
Forza lavoro e risorse: finché esisteranno questi due elementi, il capitale continuerà la sua opera di accumulazione/distruzione. Del resto, per il capitale la distruzione è sinonimo di nuovi mercati e nuovi profitti. Questa macchina infernale crollerà soltanto quando supererà i limiti assoluti. Ma l’indicatore del «saggio di profitto» non è in grado di rilevare le soglie di sostenibilità, perché queste ultime sono relative, non assolute. E così l’accumulazione continua. Come scriveva Karl Marx: «L’unico limite del capitale è il capitale stesso»; esso non può che «esaurire le uniche due fonti di tutta la ricchezza: la Terra e il lavoratore» (aggiungiamo la lavoratrice). Oggi questo monito si realizza sotto i nostri occhi giorno dopo giorno.
L’emergenza climatica illustra l’estrema gravità della situazione attuale, l’impotenza del capitale e l’urgenza di una strategia di uscita dal modo di produzione presente.
In un recente rapporto, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc) ha prospettato quattro scenari per la stabilizzazione del clima entro la soglia di 1,5° C di riscaldamento globale (vedi il grafico a pag. 25). Tutti e quattro gli scenari hanno in comune l’azzeramento delle «emissioni globali nette» di CO2 entro il 2050, ma per capire cosa li distingue è necessario chiarire cosa sia il concetto di «emissioni nette».
Le attività umane emettono CO2 (circa 40Gt/anno) e la fonte principale delle emissioni è la combustione di combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale). Di queste 40 Gt, che chiamiamo «emissioni lorde», la metà viene riassorbita dall’ecosistema (piante verdi e oceani). Perciò, per semplificare, le emissioni nette sono la differenza tra «emissioni lorde» (40 Gt/anno) e l’assorbimento ambientale, ovvero attualmente circa 20 Gt/anno.
Ciò significa, ovviamente, che, se si aumenta la capacità di assorbimento, le emissioni nette possono calare senza obbligo di ridurre le «emissioni lorde». Come si può ottenere questo risultato, dunque?
Una possibilità è aumentare la capacità di assorbimento degli ecosistemi: proteggere le foreste, ricostituirle, ricreare zone umide, generalizzare modelli ecologici di agricoltura con tecnologie adeguate. Il primo scenario proposto dall’Ipcc va in questa direzione. Il che significa, però, uscire dalla silvicoltura industriale, dall’agroindustria e da tutto ciò che ne consegue (produzione di materie prime, trasporto, grande distribuzione, industria del mobile a rapida obsolescenza, ecc.). Tutto ciò implica inoltre lo sviluppo a livello territoriale di un settore fuori mercato come il ripristino e la cura degli ecosistemi, per cui saranno indispensabili una partecipazione popolare, il sapere delle donne e la visione del mondo delle popolazioni indigene.
Nulla di tutto ciò è accettabile dal punto di vista del capitale. I capitalisti preferiscono un’altra «soluzione»: il massiccio dispiegamento di tecnologie volte a rimuovere artificialmente quantità molto elevate di carbonio dall’atmosfera. È la «soluzione» contemplata dallo scenario 4 dell’Ipcc. Dal punto di vista dell’accumulazione capitalista quest’ultima prospettiva offre indubbi vantaggi: la possibilità di nuovi investimenti, il posticipo al 2030 del limite per iniziare a diminuire le «emissioni lorde», un ulteriore margine di 10 anni per cercare di sgonfiare la «bolla di carbonio». In questo scenario, la soglia di 1,5 ° C di riscaldamento verrebbe significativamente superata al 2050, ma solo temporaneamente, finché non si apprezzeranno gli effetti delle tecnologie di raffreddamento, negli anni successivi.
Dal punto di vista degli umani e dei non umani, è una previsione degna di un apprendista stregone. L’idea di «sforare temporaneamente» la soglia di 1,5 ° C di riscaldamento è una vera e propria follia per almeno tre ragioni:
1) il pianeta non è dotato di un termostato. Nessuno sa se le tecnologie funzioneranno su scala sufficiente a raffreddare l’intero globo;
2) possono verificarsi incidenti molto gravi durante lo «sforamento temporaneo». Lo scioglimento dei ghiacciai Thwaiti e Totten nell’Antartico, per esempio, farebbe salire il livello degli oceani da 5 a 6 metri;
3) Anche ammesso che queste tecnologie funzionino, comporterebbero conseguenze sociali e ambientali estremamente rilevanti.
Quest’ultimo punto merita alcune parole di spiegazione. La tecnologia presa in considerazione dal rapporto dell’Ipcc è quella della cosiddetta «bioenergia con cattura e sequestro del carbonio», Beccs. L’idea alla base, in sostanza, consiste nel sostituire i combustibili fossili con biomassa e catturare la CO2 emessa dagli impianti a combustione immagazzinandola sottoterra. Ammettendo che lo stoccaggio sia totalmente impermeabile e non comporti perdite (la certezza non c’è), siccome la biomassa cresce assorbendo CO2, a lungo termine la Beccs dovrebbe sottrarre carbonio all’atmosfera. Il problema è che la superficie necessaria per ottenere risultati apprezzabili rappresenterebbe tra il 17 e il 25% della superficie agricola totale, e tra il 25 e il 46% delle aree coltivate in modo permanente. A queste condizioni come si potrebbero continuare a nutrire otto miliardi di persone, per non parlare di salvare il resto della biodiversità?
La realtà è che dobbiamo fare ogni sforzo necessario per applicare lo scenario 1, o almeno per arrivarci il più vicino possibile. Questo scenario implica una diminuzione delle emissioni globali nette del 58% entro il 2030. Non è sicuro che l’obiettivo sia ancora raggiungibile, ma una cosa è certa: ottenere questo risultato è totalmente impossibile se non operiamo una chiara e profonda rottura con la logica capitalista. Per convincerci è sufficiente tenere conto dei seguenti fatti:
L’anidride carbonica è il principale gas a effetto serra (rappresenta il 76% delle emissioni)
l’80% delle emissioni è causata da combustione di combustibili fossili;
questa combustione copre l’80% del fabbisogno energetico umano;
il sistema energetico fossile è inadatto alle energie rinnovabili e deve essere demolito il prima possibile, anche prima di ripagarne tutti i costi;
questo sistema pesa per un quinto del Pil mondiale (escludendo i 9/10 delle riserve di combustibili fossili da lasciare sotto terra);
i giacimenti più recenti si trovano in paesi che hanno poche o nessuna responsabilità del cambiamento climatico;
le energie rinnovabili sono sufficienti, ma per produrre una macchina che produce un kWh da energia rinnovabile occorre una quantità di metalli almeno 10 volte superiori a quella necessaria per fabbricare una macchina che produce un kWh da energia fossile. E l’estrazione di metalli richiede molta energia e consuma molta acqua.
Le conclusioni sono inevitabili:
la transizione verso un sistema rinnovabile al 100% richiede enormi investimenti che consumano energia; poiché questa energia è oggi fossile all’80%, la transizione implica un eccesso di emissioni di CO2 che deve assolutamente essere compensato;
devono essere fatte scelte rigorose, che richiedono una pianificazione: la quantità di combustibili fossili ancora utilizzabili (il cosiddetto «budget del carbonio per 1,5 ° C») dovrebbe essere assegnata in via prioritaria ai paesi più poveri e agli investimenti nella transizione verso la giustizia sociale;
la transizione è incompatibile con l’accumulazione capitalistica. Lo scenario 1 non sarà rispettato solo regolando, pianificando e innovando: è necessario produrre e trasportare meno;
Dobbiamo rompere con il modello della crescita, ma se è vero che «un capitalismo senza crescita è una contraddizione in termini», (Schumpeter), allora è necessario tracciare una via d’uscita dal capitalismo perché, come ha detto Einstein, «non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato».
Il capitalismo si trova di fronte a un muro e sta sviluppando fondamentalmente due strategie. La prima è il negazionismo climatico di Trump e Bolsonaro. La seconda si riduce al tentativo di rassicurare gli animi paventando l’idea che dando un prezzo al carbonio fossile gli investimenti si riorienteranno verso un «capitalismo verde». Facciamo finta che questa seconda strategia possa funzionare: allo stato attuale, questo riorientamento degli investimenti arriverebbe comunque troppo tardi, perché non tiene conto della necessaria riduzione della produzione.
Ma nella realtà l’ipotesi non regge: per ottenere un impatto apprezzabile bisognerebbe fissare un prezzo del carbonio fossile molto elevato. Il che è ovviamente inaccettabile per il capitale fossile, quindi per il capitale in generale, visto che il capitalismo dipende per l’80% dai combustibili fossili. E siccome i governi si dedicano a difendere la competitività, tutti tentativi di imporre un prezzo al carbonio fossile mostreranno sempre tre caratteristiche: 1) il prezzo sarà troppo basso dal punto di vista ecologico; 2) il dispositivo sarà costruito a svantaggio dei lavoratori; 3) verranno costruiti per il capitale nuovi prodotti finanziari (i «diritti di inquinamento») e nuove opportunità di appropriarsi di risorse naturali. Per esempio le foreste, che assorbendo CO2 danno ai proprietari il diritto di godere di «crediti carbonio» per «compensare» le emissioni prodotte altrove.
La strategia del «capitalismo verde» è stata adottata dal Vertice della Terra di Rio, nel 1992. Ma la storia parla chiaro: le emissioni hanno continuato ad aumentare (sono addirittura aumentate più rapidamente che nel periodo precedente al 1992). Sulla base degli impegni presi alla Cop 21, il riscaldamento dovrebbe superare i 3° C entro la fine del secolo. A questo livello è molto probabile che la Terra diventi una «fornace», con temperature da 3 a 4° C superiori a quelle di oggi e un livello dell’oceano da quattro a sei metri più alto.
In 25 anni, da Rio in poi, le emissioni sono diminuite solo nel 2008-2009 e peraltro come risultato della recessione economica, le cui conseguenze sociali sono state molto gravi. Per far sì che la transizione ecologica sia efficace e giusta, è necessario rompere questo modo di produzione basato su un progresso distruttivo, in cui il benessere relativo e l’occupazione dipendono dall’accumulazione di capitale. Dobbiamo adottare due principi molto chiari: produrre di meno e condividere di più; produrre per reali bisogni umani, democraticamente determinati nel rispetto degli ecosistemi e non a scopo di lucro.
Inserisco questo articolo perché, oltre a valutazioni di carattere indubbiamente politico, contiene anche molti dati che danno un'idea complessiva della situazione. Ometto per correttezza le proposte politiche finali, che d'altra parte si intuiscono dalla premessa.
Daniel Tanuro, da "Jacobin italia".
L’attualità ci parla non di una mera «questione», ma di una «urgenza» ecologica. Il programma internazionale Geosfera-biosfera ha identificato dieci parametri ambientali dello sviluppo umano e dieci soglie di sostenibilità. In quattro di questi dieci ambiti i limiti sono già stati superati (il ciclo dell’azoto, la riduzione della biodiversità, la concentrazione di gas a effetto serra nell’atmosfera e l’erosione del suolo). In altre parole, la catastrofe è già in corso.
La popolazione totale, la popolazione urbana, il Pil, il trasporto di merci, il consumo di energia primaria, di acqua e di fertilizzanti, la produzione di carta, le grandi dighe, il turismo… Le curve di incremento di questi fattori dal 1750 a oggi sono cosa nota. Tutte hanno un profilo esponenziale, con un punto di inflessione intorno al 1950: è lì che i ricercatori situano la cosiddetta «grande accelerazione» del dopoguerra.
Spesso guardando la curva della popolazione si arriva alla conclusione che la causa di tutti problemi sarebbe la demografia. Uno sguardo più attento, però, rivela tutt’altro. È vero che la popolazione mondiale è aumentata di 2,7 volte tra il 1950 e il 2000, ma è altrettanto vero che il consumo di energia primaria è cresciuto di 5 volte e mezzo, il trasporto di merci si è moltiplicato per 7, il consumo di fertilizzanti per 16 e il Pil per 10. Allo stesso tempo, le disuguaglianze sociali sono aumentate del 12%. Il motore dell’accelerazione, dunque, non risiede nella popolazione ma nel modo in cui l’umanità produce la sua stessa esistenza sociale. Il vero motore del processo è l’accumulazione del capitale, fonte della tendenza alla crescita infinita, da un lato, e all’esacerbazione delle disuguaglianze dall’altro. Ora, l’accumulazione è inscritta nel Dna del capitale. Sotto la frusta della concorrenza, i capitalisti lottano per il massimo profitto e poi lo reinvestono al fine di ottenerne sempre di più. È questo il meccanismo che sta dietro alla «grande accelerazione».
Ora, la domanda è, come mai questo processo continua imperterrito, nonostante le minacce di crisi? La risposta è che il capitale non è una cosa inerte: è una quantità di denaro che cerca freneticamente di crescere sfruttando il lavoro. Ma poiché ogni lavoro richiede energia e risorse ricavate dall’ambiente, l’accumulazione implica necessariamente lo sfruttamento di una quantità sempre maggiore di risorse, umane e non umane.
Forza lavoro e risorse: finché esisteranno questi due elementi, il capitale continuerà la sua opera di accumulazione/distruzione. Del resto, per il capitale la distruzione è sinonimo di nuovi mercati e nuovi profitti. Questa macchina infernale crollerà soltanto quando supererà i limiti assoluti. Ma l’indicatore del «saggio di profitto» non è in grado di rilevare le soglie di sostenibilità, perché queste ultime sono relative, non assolute. E così l’accumulazione continua. Come scriveva Karl Marx: «L’unico limite del capitale è il capitale stesso»; esso non può che «esaurire le uniche due fonti di tutta la ricchezza: la Terra e il lavoratore» (aggiungiamo la lavoratrice). Oggi questo monito si realizza sotto i nostri occhi giorno dopo giorno.
L’emergenza climatica illustra l’estrema gravità della situazione attuale, l’impotenza del capitale e l’urgenza di una strategia di uscita dal modo di produzione presente.
In un recente rapporto, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc) ha prospettato quattro scenari per la stabilizzazione del clima entro la soglia di 1,5° C di riscaldamento globale (vedi il grafico a pag. 25). Tutti e quattro gli scenari hanno in comune l’azzeramento delle «emissioni globali nette» di CO2 entro il 2050, ma per capire cosa li distingue è necessario chiarire cosa sia il concetto di «emissioni nette».
Le attività umane emettono CO2 (circa 40Gt/anno) e la fonte principale delle emissioni è la combustione di combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale). Di queste 40 Gt, che chiamiamo «emissioni lorde», la metà viene riassorbita dall’ecosistema (piante verdi e oceani). Perciò, per semplificare, le emissioni nette sono la differenza tra «emissioni lorde» (40 Gt/anno) e l’assorbimento ambientale, ovvero attualmente circa 20 Gt/anno.
Ciò significa, ovviamente, che, se si aumenta la capacità di assorbimento, le emissioni nette possono calare senza obbligo di ridurre le «emissioni lorde». Come si può ottenere questo risultato, dunque?
Una possibilità è aumentare la capacità di assorbimento degli ecosistemi: proteggere le foreste, ricostituirle, ricreare zone umide, generalizzare modelli ecologici di agricoltura con tecnologie adeguate. Il primo scenario proposto dall’Ipcc va in questa direzione. Il che significa, però, uscire dalla silvicoltura industriale, dall’agroindustria e da tutto ciò che ne consegue (produzione di materie prime, trasporto, grande distribuzione, industria del mobile a rapida obsolescenza, ecc.). Tutto ciò implica inoltre lo sviluppo a livello territoriale di un settore fuori mercato come il ripristino e la cura degli ecosistemi, per cui saranno indispensabili una partecipazione popolare, il sapere delle donne e la visione del mondo delle popolazioni indigene.
Nulla di tutto ciò è accettabile dal punto di vista del capitale. I capitalisti preferiscono un’altra «soluzione»: il massiccio dispiegamento di tecnologie volte a rimuovere artificialmente quantità molto elevate di carbonio dall’atmosfera. È la «soluzione» contemplata dallo scenario 4 dell’Ipcc. Dal punto di vista dell’accumulazione capitalista quest’ultima prospettiva offre indubbi vantaggi: la possibilità di nuovi investimenti, il posticipo al 2030 del limite per iniziare a diminuire le «emissioni lorde», un ulteriore margine di 10 anni per cercare di sgonfiare la «bolla di carbonio». In questo scenario, la soglia di 1,5 ° C di riscaldamento verrebbe significativamente superata al 2050, ma solo temporaneamente, finché non si apprezzeranno gli effetti delle tecnologie di raffreddamento, negli anni successivi.
Dal punto di vista degli umani e dei non umani, è una previsione degna di un apprendista stregone. L’idea di «sforare temporaneamente» la soglia di 1,5 ° C di riscaldamento è una vera e propria follia per almeno tre ragioni:
1) il pianeta non è dotato di un termostato. Nessuno sa se le tecnologie funzioneranno su scala sufficiente a raffreddare l’intero globo;
2) possono verificarsi incidenti molto gravi durante lo «sforamento temporaneo». Lo scioglimento dei ghiacciai Thwaiti e Totten nell’Antartico, per esempio, farebbe salire il livello degli oceani da 5 a 6 metri;
3) Anche ammesso che queste tecnologie funzionino, comporterebbero conseguenze sociali e ambientali estremamente rilevanti.
Quest’ultimo punto merita alcune parole di spiegazione. La tecnologia presa in considerazione dal rapporto dell’Ipcc è quella della cosiddetta «bioenergia con cattura e sequestro del carbonio», Beccs. L’idea alla base, in sostanza, consiste nel sostituire i combustibili fossili con biomassa e catturare la CO2 emessa dagli impianti a combustione immagazzinandola sottoterra. Ammettendo che lo stoccaggio sia totalmente impermeabile e non comporti perdite (la certezza non c’è), siccome la biomassa cresce assorbendo CO2, a lungo termine la Beccs dovrebbe sottrarre carbonio all’atmosfera. Il problema è che la superficie necessaria per ottenere risultati apprezzabili rappresenterebbe tra il 17 e il 25% della superficie agricola totale, e tra il 25 e il 46% delle aree coltivate in modo permanente. A queste condizioni come si potrebbero continuare a nutrire otto miliardi di persone, per non parlare di salvare il resto della biodiversità?
La realtà è che dobbiamo fare ogni sforzo necessario per applicare lo scenario 1, o almeno per arrivarci il più vicino possibile. Questo scenario implica una diminuzione delle emissioni globali nette del 58% entro il 2030. Non è sicuro che l’obiettivo sia ancora raggiungibile, ma una cosa è certa: ottenere questo risultato è totalmente impossibile se non operiamo una chiara e profonda rottura con la logica capitalista. Per convincerci è sufficiente tenere conto dei seguenti fatti:
L’anidride carbonica è il principale gas a effetto serra (rappresenta il 76% delle emissioni)
l’80% delle emissioni è causata da combustione di combustibili fossili;
questa combustione copre l’80% del fabbisogno energetico umano;
il sistema energetico fossile è inadatto alle energie rinnovabili e deve essere demolito il prima possibile, anche prima di ripagarne tutti i costi;
questo sistema pesa per un quinto del Pil mondiale (escludendo i 9/10 delle riserve di combustibili fossili da lasciare sotto terra);
i giacimenti più recenti si trovano in paesi che hanno poche o nessuna responsabilità del cambiamento climatico;
le energie rinnovabili sono sufficienti, ma per produrre una macchina che produce un kWh da energia rinnovabile occorre una quantità di metalli almeno 10 volte superiori a quella necessaria per fabbricare una macchina che produce un kWh da energia fossile. E l’estrazione di metalli richiede molta energia e consuma molta acqua.
Le conclusioni sono inevitabili:
la transizione verso un sistema rinnovabile al 100% richiede enormi investimenti che consumano energia; poiché questa energia è oggi fossile all’80%, la transizione implica un eccesso di emissioni di CO2 che deve assolutamente essere compensato;
devono essere fatte scelte rigorose, che richiedono una pianificazione: la quantità di combustibili fossili ancora utilizzabili (il cosiddetto «budget del carbonio per 1,5 ° C») dovrebbe essere assegnata in via prioritaria ai paesi più poveri e agli investimenti nella transizione verso la giustizia sociale;
la transizione è incompatibile con l’accumulazione capitalistica. Lo scenario 1 non sarà rispettato solo regolando, pianificando e innovando: è necessario produrre e trasportare meno;
Dobbiamo rompere con il modello della crescita, ma se è vero che «un capitalismo senza crescita è una contraddizione in termini», (Schumpeter), allora è necessario tracciare una via d’uscita dal capitalismo perché, come ha detto Einstein, «non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato».
Il capitalismo si trova di fronte a un muro e sta sviluppando fondamentalmente due strategie. La prima è il negazionismo climatico di Trump e Bolsonaro. La seconda si riduce al tentativo di rassicurare gli animi paventando l’idea che dando un prezzo al carbonio fossile gli investimenti si riorienteranno verso un «capitalismo verde». Facciamo finta che questa seconda strategia possa funzionare: allo stato attuale, questo riorientamento degli investimenti arriverebbe comunque troppo tardi, perché non tiene conto della necessaria riduzione della produzione.
Ma nella realtà l’ipotesi non regge: per ottenere un impatto apprezzabile bisognerebbe fissare un prezzo del carbonio fossile molto elevato. Il che è ovviamente inaccettabile per il capitale fossile, quindi per il capitale in generale, visto che il capitalismo dipende per l’80% dai combustibili fossili. E siccome i governi si dedicano a difendere la competitività, tutti tentativi di imporre un prezzo al carbonio fossile mostreranno sempre tre caratteristiche: 1) il prezzo sarà troppo basso dal punto di vista ecologico; 2) il dispositivo sarà costruito a svantaggio dei lavoratori; 3) verranno costruiti per il capitale nuovi prodotti finanziari (i «diritti di inquinamento») e nuove opportunità di appropriarsi di risorse naturali. Per esempio le foreste, che assorbendo CO2 danno ai proprietari il diritto di godere di «crediti carbonio» per «compensare» le emissioni prodotte altrove.
La strategia del «capitalismo verde» è stata adottata dal Vertice della Terra di Rio, nel 1992. Ma la storia parla chiaro: le emissioni hanno continuato ad aumentare (sono addirittura aumentate più rapidamente che nel periodo precedente al 1992). Sulla base degli impegni presi alla Cop 21, il riscaldamento dovrebbe superare i 3° C entro la fine del secolo. A questo livello è molto probabile che la Terra diventi una «fornace», con temperature da 3 a 4° C superiori a quelle di oggi e un livello dell’oceano da quattro a sei metri più alto.
In 25 anni, da Rio in poi, le emissioni sono diminuite solo nel 2008-2009 e peraltro come risultato della recessione economica, le cui conseguenze sociali sono state molto gravi. Per far sì che la transizione ecologica sia efficace e giusta, è necessario rompere questo modo di produzione basato su un progresso distruttivo, in cui il benessere relativo e l’occupazione dipendono dall’accumulazione di capitale. Dobbiamo adottare due principi molto chiari: produrre di meno e condividere di più; produrre per reali bisogni umani, democraticamente determinati nel rispetto degli ecosistemi e non a scopo di lucro.
Ultima modifica di burjan il dom 20 ott, 2019 08:16, modificato 1 volta in totale.
Il dono della previsione è far comprendere quanto sia perfettamente inutile dare una risposta alle domande sbagliate (Ursula Le Guin)
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Re: Banca Dati Sul Cambiamento Climatico
Lettera aperta firmata da oltre 500 scienziati di tutto il mondo, inviata al segretario generale delle nazioni unite, nella speranza di essere ascoltati e convocati ai prossimi vertici sul clima;
https://clintel.nl/wp-content/uploads/2 ... ieNWA4.pdf
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Re: Banca dati sul cambiamento climatico
Ragazzi in questo topic bisognerebbe evitare i commenti su quanto postato
Altrimenti diventa un altro (l'ennesimo ) topic sul climate change.
Grazie
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Re: Banca dati sul cambiamento climatico
Aggiungo a quanto dice giustamente Leo, che potete liberamente discutere di un articolo qui presente nel consueto topic dedicato alla materia:Ragazzi in questo topic bisognerebbe evitare i commenti su quanto postato
Altrimenti diventa un altro (l'ennesimo ) topic sul climate change.
Grazie
http://www.lineameteo.it/10-vf1-vt16412.html?start=135
Questo appunto funge solo da banca dati.
- burjan
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Re: Banca dati sul cambiamento climatico
ANSA) - MILANO, 25 OTT - Le piattaforme di ghiaccio sul versante orientale della penisola antartica sarebbero ormai prossime al collasso per effetto dello scioglimento che, negli ultimi 300 anni, si è verificato con un ritmo senza precedenti: il fenomeno potrebbe essere legato al cambiamento della circolazione dei venti e, in tempi più recenti, ai gas serra e all'assottigliamento dello strato di ozono dovuti all'attività dell'uomo. A indicarlo sono antiche alghe unicellulari intrappolate nei sedimenti marini: nei loro atomi sono registrati ben 6.250 anni di storia dei ghiacci, ricostruiti sulla rivista Scientific Reports da un gruppo internazionale di ricerca coordinato dalla British Antarctic Survey. Se le alghe diatomee sono come un libro di storia, il loro racconto è scritto con 'lettere' di ossigeno: le varianti degli atomi presenti (isotopi) al loro interno permettono infatti di ricostruire quanta acqua è stata prodotta dallo scioglimento dei ghiacci in un dato periodo storico. Dalle analisi è emerso come il fenomeno abbia iniziato ad accelerare dopo il 1400, con due evidenti impennate dopo il 1706 e il 1912. I dati dimostrano quindi che le piattaforme di ghiaccio della regione si sono assottigliate con un ritmo crescente per circa 300 anni, e questo potrebbe predisporle al collasso con l'intensificazione del riscaldamento globale dovuto all'uomo.
Ad accelerare la crisi dei ghiacci, secondo i ricercatori, potrebbe aver contribuito il cambiamento del fenomeno dell'Oscillazione antartica, che nella regione ha portato venti occidentali più forti, un surriscaldamento dell'atmosfera e correnti marine più calde sotto le piattaforme di ghiaccio. Allo stesso modo, i frequenti cambiamenti dell'Oscillazione antartica osservati in tempi più recenti potrebbero riflettere l'azione esercitata dai gas serra e dall'ozono, causando un'ulteriore perdita di ghiacci nel futuro.(ANSA).
Ad accelerare la crisi dei ghiacci, secondo i ricercatori, potrebbe aver contribuito il cambiamento del fenomeno dell'Oscillazione antartica, che nella regione ha portato venti occidentali più forti, un surriscaldamento dell'atmosfera e correnti marine più calde sotto le piattaforme di ghiaccio. Allo stesso modo, i frequenti cambiamenti dell'Oscillazione antartica osservati in tempi più recenti potrebbero riflettere l'azione esercitata dai gas serra e dall'ozono, causando un'ulteriore perdita di ghiacci nel futuro.(ANSA).
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Re: Banca dati sul cambiamento climatico
I SUV sono il secondo maggior responsabile dell’aumento delle emissioni di CO2 del pianeta
https://it.businessinsider.com/i-suv-so ... l-pianeta/
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Il dono della previsione è far comprendere quanto sia perfettamente inutile dare una risposta alle domande sbagliate (Ursula Le Guin)
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Re: Banca Dati Sul Cambiamento Climatico
Ciao a tutti,
anche quest'anno il minimo di estensione dei ghiacci artici è stato raggiunto intorno al 14 di settembre con un valore di 4,15 milioni di chilometri quadrati, valore che colloca il 2019 al secondo posto nella classifica delle minime estensioni, superato in peggio solo dal drammatico 2012 con 3,39 milioni di km2.
Tuttavia c'è da rilevare che si tratta quasi di un ex aequo con il 2016 (4,17), ben visibile nel grafico seguente, e il 2007 (4,16):
Purtroppo la tendenza di lungo periodo è sempre la stessa, e non è affatto rassicurante:
Però vi avevo promesso una buona notizia e ve la devo dare, per quello che vale.
Suddividendo l'analisi in periodi di 13 anni (non chiedetemi perché il NSIDC abbia scelto questo numero!) si evidenzia che il periodo di massimo declino è stato quello tra il 1999 e il 2012, con una perdita media di 203.000 km2/anno, mentre il periodo di minimo declino è stato proprio il più recente. Ovvero, tra il 2007 e il 2019 il declino medio è stato di soli 1.200 km2/anno, determinando una linea sostanzialmente piatta.
Il NSIDC sottolinea come sia molto più significativa un'analisi decadale rispetto a una annuale, in un sistema ad alta variabilità come quello dei ghiacci artici, lasciando forse intendere (ma questo non c'è scritto) che questa fase di sostanziale stasi sia particolarmente interessante.
anche quest'anno il minimo di estensione dei ghiacci artici è stato raggiunto intorno al 14 di settembre con un valore di 4,15 milioni di chilometri quadrati, valore che colloca il 2019 al secondo posto nella classifica delle minime estensioni, superato in peggio solo dal drammatico 2012 con 3,39 milioni di km2.
Tuttavia c'è da rilevare che si tratta quasi di un ex aequo con il 2016 (4,17), ben visibile nel grafico seguente, e il 2007 (4,16):
Purtroppo la tendenza di lungo periodo è sempre la stessa, e non è affatto rassicurante:
Però vi avevo promesso una buona notizia e ve la devo dare, per quello che vale.
Suddividendo l'analisi in periodi di 13 anni (non chiedetemi perché il NSIDC abbia scelto questo numero!) si evidenzia che il periodo di massimo declino è stato quello tra il 1999 e il 2012, con una perdita media di 203.000 km2/anno, mentre il periodo di minimo declino è stato proprio il più recente. Ovvero, tra il 2007 e il 2019 il declino medio è stato di soli 1.200 km2/anno, determinando una linea sostanzialmente piatta.
Il NSIDC sottolinea come sia molto più significativa un'analisi decadale rispetto a una annuale, in un sistema ad alta variabilità come quello dei ghiacci artici, lasciando forse intendere (ma questo non c'è scritto) che questa fase di sostanziale stasi sia particolarmente interessante.
Stazione meteo Padova: http://www.lineameteo.it/stazioni.php?id=1862
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Re: Banca dati sul cambiamento climatico
(la stampa.it)
Il riscaldamento globale ha messo il turbo nel Mediterraneo
L’effetto dei cambiamenti climatici non sarà solo qualche metro di spiaggia in meno, ma un nuovo scenario geo-politico in cui Europa e Africa saranno obbligati a creare un fronte comune di sostenibilità ambientale. Secondo il primo rapporto scientifico sul cambiamento climatico presentato a Barcellona dall’Unione per il Mediterraneo (UfM), nelle regioni che si affacciano sul Mare nostrum la temperatura cresce a un ritmo del 20 per cento in più rispetto al resto del pianeta
fabio marzano
Pubblicato il
01 Novembre 2019
BARCELLONA – L’effetto dei cambiamenti climatici non sarà solo qualche metro di spiaggia in meno, ma un nuovo scenario geo-politico in cui Europa e Africa saranno obbligati a creare un fronte comune di sostenibilità ambientale. Secondo il primo rapporto scientifico sul cambiamento climatico presentato a Barcellona dall’Unione per il Mediterraneo (UfM), nelle regioni che si affacciano sul Mare nostrum la temperatura cresce a un ritmo del 20 per cento in più rispetto al resto del pianeta. Un riscaldamento accelerato da condizioni di degrado ambientale che rendono l’area un osservato speciale per la colonnina di mercurio.
Consumo del suolo, inquinamento atmosferico e riduzione della biodiversità sono i tra i principali imputati di questo scatto in avanti che, nel peggiore dei casi, potrebbe portare a un innalzamento della temperatura rispetto a oggi di 2,2 gradi nel 2040 e addirittura di 3,8 alla fine del secolo. "Un cambiamento che potrebbe incidere sulla stabilità della democrazia e la prosperità nel Mediterraneo, dove vive quasi mezzo miliardo di persone", afferma Nasser Kamel, segretario generale dell’Unione, un’organizzazione intergovernativa di 43 paesi dell’area, dall’Europa al Nord-Africa fino al Medioriente. "Nessuna nazione o singola comunità nella nostra regione può affrontare da sola i cambiamenti climatici - prosegue - Uno sviluppo sempre più sostenibile dovrà per forza passare da un nuovo approccio alle risorse comuni, e limitate, dell’area".
Come la disponibilità di acqua, per esempio: in base ai dati del rapporto con un aumento della temperatura di 2 gradi si potrebbe ridurre dal 2 al 15 per cento portando anche porzioni di Grecia e Turchia sotto quella che si chiama la soglia di povertà d’acqua, che equivale a mille metri cubi pro-capite all’anno.
Oltre al dato ambientale, il riscaldamento mette a rischio la sicurezza dell’intero bacino. "Le comunità più povere saranno esposte maggiormente a effetti diretti dei cambiamenti climatici come la siccità e, di conseguenza, ai richiami di trafficanti di uomini e terroristi. - spiega Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano e coordinatore dell’unità su clima ed energia dell’Ufm – Nel Mediterraneo non siamo ancora arrivati a questo stadio terminale ma nell’area del lago Ciad, per esempio l’organizzazione terroristica Boko Haram recluta sempre più persone tra le vittime della desertificazione. Le agricolture di villaggio, a quelle latitudini, se non sono tutelate o protette rischiano di estinguersi senza offrire una seconda opportunità ai coltivatori. Occuparsi di solidarietà, sotto questo profilo, è nostro interesse".
Secondo lo studio dell’Ufm, coordinato dalla rete di scienziati del MedECC (Mediterranean Experts on Climate Change) per ogni grado di temperatura in più la produzione di frumento si riduce del 7,5 per cento. Senza interventi che possano rallentare il riscaldamento globale nell’Europa meridionale si prevede anche un calo del 14 per cento della coltivazione di ortaggi quotidiani come carote e patate. "La stessa idea di civiltà europea e mediterranea nasce da una condizione climatica ben precisa, determinata dall’anti-ciclone delle Azzorre che oggi si è indebolito a favore degli anticicloni di origine africana - precisa il diplomatico italiano - Questo non significa che in futuro perderemo la nostra identità europea ma che i nostri interessi dovranno essere sempre più condivisi con le regioni soggette agli anti-cicloni africani".
L’ultima, e più allarmante previsione del rapporto presentato da Ufm riguarda il livello dell’acqua: nella malaugurata ipotesi che la temperatura non arresti la sua corsa, entro il 2100 la superficie del mare aumenterà di un metro, mettendo a rischio ambienti unici come Pantelleria o le isole greche. "È necessario investire, per esempio, sulle tecnologie di desalinizzazione o le reti di cattura dell’acqua nel deserto creando dei veri e propri corridoi di buone pratiche di sostenibilità tra i Paesi dell’area mediterranea. – ha concluso Mastrojeni – Serve poi rilanciare l’agricoltura su piccola scala e valorizzando quella biodiversità alimentare che dimostra maggiore adattabilità ai cambiamenti climatici".
Il riscaldamento globale ha messo il turbo nel Mediterraneo
L’effetto dei cambiamenti climatici non sarà solo qualche metro di spiaggia in meno, ma un nuovo scenario geo-politico in cui Europa e Africa saranno obbligati a creare un fronte comune di sostenibilità ambientale. Secondo il primo rapporto scientifico sul cambiamento climatico presentato a Barcellona dall’Unione per il Mediterraneo (UfM), nelle regioni che si affacciano sul Mare nostrum la temperatura cresce a un ritmo del 20 per cento in più rispetto al resto del pianeta
fabio marzano
Pubblicato il
01 Novembre 2019
BARCELLONA – L’effetto dei cambiamenti climatici non sarà solo qualche metro di spiaggia in meno, ma un nuovo scenario geo-politico in cui Europa e Africa saranno obbligati a creare un fronte comune di sostenibilità ambientale. Secondo il primo rapporto scientifico sul cambiamento climatico presentato a Barcellona dall’Unione per il Mediterraneo (UfM), nelle regioni che si affacciano sul Mare nostrum la temperatura cresce a un ritmo del 20 per cento in più rispetto al resto del pianeta. Un riscaldamento accelerato da condizioni di degrado ambientale che rendono l’area un osservato speciale per la colonnina di mercurio.
Consumo del suolo, inquinamento atmosferico e riduzione della biodiversità sono i tra i principali imputati di questo scatto in avanti che, nel peggiore dei casi, potrebbe portare a un innalzamento della temperatura rispetto a oggi di 2,2 gradi nel 2040 e addirittura di 3,8 alla fine del secolo. "Un cambiamento che potrebbe incidere sulla stabilità della democrazia e la prosperità nel Mediterraneo, dove vive quasi mezzo miliardo di persone", afferma Nasser Kamel, segretario generale dell’Unione, un’organizzazione intergovernativa di 43 paesi dell’area, dall’Europa al Nord-Africa fino al Medioriente. "Nessuna nazione o singola comunità nella nostra regione può affrontare da sola i cambiamenti climatici - prosegue - Uno sviluppo sempre più sostenibile dovrà per forza passare da un nuovo approccio alle risorse comuni, e limitate, dell’area".
Come la disponibilità di acqua, per esempio: in base ai dati del rapporto con un aumento della temperatura di 2 gradi si potrebbe ridurre dal 2 al 15 per cento portando anche porzioni di Grecia e Turchia sotto quella che si chiama la soglia di povertà d’acqua, che equivale a mille metri cubi pro-capite all’anno.
Oltre al dato ambientale, il riscaldamento mette a rischio la sicurezza dell’intero bacino. "Le comunità più povere saranno esposte maggiormente a effetti diretti dei cambiamenti climatici come la siccità e, di conseguenza, ai richiami di trafficanti di uomini e terroristi. - spiega Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano e coordinatore dell’unità su clima ed energia dell’Ufm – Nel Mediterraneo non siamo ancora arrivati a questo stadio terminale ma nell’area del lago Ciad, per esempio l’organizzazione terroristica Boko Haram recluta sempre più persone tra le vittime della desertificazione. Le agricolture di villaggio, a quelle latitudini, se non sono tutelate o protette rischiano di estinguersi senza offrire una seconda opportunità ai coltivatori. Occuparsi di solidarietà, sotto questo profilo, è nostro interesse".
Secondo lo studio dell’Ufm, coordinato dalla rete di scienziati del MedECC (Mediterranean Experts on Climate Change) per ogni grado di temperatura in più la produzione di frumento si riduce del 7,5 per cento. Senza interventi che possano rallentare il riscaldamento globale nell’Europa meridionale si prevede anche un calo del 14 per cento della coltivazione di ortaggi quotidiani come carote e patate. "La stessa idea di civiltà europea e mediterranea nasce da una condizione climatica ben precisa, determinata dall’anti-ciclone delle Azzorre che oggi si è indebolito a favore degli anticicloni di origine africana - precisa il diplomatico italiano - Questo non significa che in futuro perderemo la nostra identità europea ma che i nostri interessi dovranno essere sempre più condivisi con le regioni soggette agli anti-cicloni africani".
L’ultima, e più allarmante previsione del rapporto presentato da Ufm riguarda il livello dell’acqua: nella malaugurata ipotesi che la temperatura non arresti la sua corsa, entro il 2100 la superficie del mare aumenterà di un metro, mettendo a rischio ambienti unici come Pantelleria o le isole greche. "È necessario investire, per esempio, sulle tecnologie di desalinizzazione o le reti di cattura dell’acqua nel deserto creando dei veri e propri corridoi di buone pratiche di sostenibilità tra i Paesi dell’area mediterranea. – ha concluso Mastrojeni – Serve poi rilanciare l’agricoltura su piccola scala e valorizzando quella biodiversità alimentare che dimostra maggiore adattabilità ai cambiamenti climatici".
Il dono della previsione è far comprendere quanto sia perfettamente inutile dare una risposta alle domande sbagliate (Ursula Le Guin)
- burjan
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Re: Banca dati sul cambiamento climatico
(lastampa.it)
Il surriscaldamento climatico è arrivato nel profondo delle Alpi
Una ricerca del Cnr documenta come lo strato di ghiaccio si sia sciolto anche nelle cavità più profonde in cui dovrebbe essere perenne
Nicola Pinna
Pubblicato il
04 Novembre 2019
Ultima modifica
04 Novembre 2019 19:11
Hanno persino oltrepassato la roccia più impenetrabile, gli effetti del surriscaldamento climatico. Sembra una notizia già sentita e risentita, ma questa per gli scienziati è una novità assoluta e anche molto preoccupante. Perché l’aumento delle temperature, quelle gli studiosi considerano una grave conseguenza di inquinamento e squilibri provocati dall’uomo, cominciano ad arrecare gravi danni anche in una parte del pianeta che finora era sembrata più protetta. Sotto le rocce del monte Canin, nel cuore delle Alpi Giulie, all’interno di una grande caverna, i ricercatori dell’Istituto scienze marine del Cnr e quelli dell’Università di Insubria, sono riusciti a documentare il momento esatto in cui si scioglie il permafrost.
Il permafrost è un terreno perennemente ghiacciaio e nella parte meno superficiale della montagna dovrebbe mantenersi a una temperatura costantemente sotto lo zero. Ma il surriscaldamento è arrivato anche in questa zona buia e molto difficile da raggiungere. Per tre anni gli studiosi hanno monitorato la situazione e nel corso delle lunghe sessioni di studio hanno documentato e fotografato il momento in cui è stato oltrepassata la soglia dello zero. «Bisogna immaginare la roccia sotterranea come se fosse organizzata per strati - spiega Renato Colucci del Cnr-Ismar -. Lo strato più esterno ghiaccia d’inverno e scongela d’estate mentre lo strato più interno rimane sempre sotto lo zero: questo è il permafrost».
Negli ultimi anni però questa situazione è stata stravolta. E gli effetti risultano a dir poco preoccupanti. «Questa situazione, effettivamente, ha importanti ripercussioni sulle riserve d’acqua sotterranea, che sono stoccate sotto forma di ghiaccio permanente e che caratterizzano le aree carsiche di alta quota come ad esempio le Alpi Giulie, ma anche estese aree delle Alpi austriache o quelle svizzere - aggiunge Colucci - Non è un caso, infatti, che la superficie topografica del ghiacciaio sotterraneo nella grotta del monte Canins si è abbassata di mezzo metro nell’arco di soli quattro anni».
Frane e dissesto fanno parte degli altri rischi, che possono interessare anche la vita dell’uomo. «Il permaforst infatti tende a dare maggiore stabilità a versanti e pareti ad alta quota grazie all’azione legante che il ghiaccio imprime alle fratture rocciose - sottolineano dal Cnr - Il suo scongelamento porta ad un potenziale aumento di eventi franosi e, anche se non è mai stata misurata una correlazione diretta, si osserva che negli ultimi anni sulle Alpi Giulie sono aumentati i casi di crollo di vaste porzioni rocciose».
Il surriscaldamento climatico è arrivato nel profondo delle Alpi
Una ricerca del Cnr documenta come lo strato di ghiaccio si sia sciolto anche nelle cavità più profonde in cui dovrebbe essere perenne
Nicola Pinna
Pubblicato il
04 Novembre 2019
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04 Novembre 2019 19:11
Hanno persino oltrepassato la roccia più impenetrabile, gli effetti del surriscaldamento climatico. Sembra una notizia già sentita e risentita, ma questa per gli scienziati è una novità assoluta e anche molto preoccupante. Perché l’aumento delle temperature, quelle gli studiosi considerano una grave conseguenza di inquinamento e squilibri provocati dall’uomo, cominciano ad arrecare gravi danni anche in una parte del pianeta che finora era sembrata più protetta. Sotto le rocce del monte Canin, nel cuore delle Alpi Giulie, all’interno di una grande caverna, i ricercatori dell’Istituto scienze marine del Cnr e quelli dell’Università di Insubria, sono riusciti a documentare il momento esatto in cui si scioglie il permafrost.
Il permafrost è un terreno perennemente ghiacciaio e nella parte meno superficiale della montagna dovrebbe mantenersi a una temperatura costantemente sotto lo zero. Ma il surriscaldamento è arrivato anche in questa zona buia e molto difficile da raggiungere. Per tre anni gli studiosi hanno monitorato la situazione e nel corso delle lunghe sessioni di studio hanno documentato e fotografato il momento in cui è stato oltrepassata la soglia dello zero. «Bisogna immaginare la roccia sotterranea come se fosse organizzata per strati - spiega Renato Colucci del Cnr-Ismar -. Lo strato più esterno ghiaccia d’inverno e scongela d’estate mentre lo strato più interno rimane sempre sotto lo zero: questo è il permafrost».
Negli ultimi anni però questa situazione è stata stravolta. E gli effetti risultano a dir poco preoccupanti. «Questa situazione, effettivamente, ha importanti ripercussioni sulle riserve d’acqua sotterranea, che sono stoccate sotto forma di ghiaccio permanente e che caratterizzano le aree carsiche di alta quota come ad esempio le Alpi Giulie, ma anche estese aree delle Alpi austriache o quelle svizzere - aggiunge Colucci - Non è un caso, infatti, che la superficie topografica del ghiacciaio sotterraneo nella grotta del monte Canins si è abbassata di mezzo metro nell’arco di soli quattro anni».
Frane e dissesto fanno parte degli altri rischi, che possono interessare anche la vita dell’uomo. «Il permaforst infatti tende a dare maggiore stabilità a versanti e pareti ad alta quota grazie all’azione legante che il ghiaccio imprime alle fratture rocciose - sottolineano dal Cnr - Il suo scongelamento porta ad un potenziale aumento di eventi franosi e, anche se non è mai stata misurata una correlazione diretta, si osserva che negli ultimi anni sulle Alpi Giulie sono aumentati i casi di crollo di vaste porzioni rocciose».
Il dono della previsione è far comprendere quanto sia perfettamente inutile dare una risposta alle domande sbagliate (Ursula Le Guin)
- snow96
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